Lo Spread.

Lo Spread.

 

ovvero:

 

L’illustre sconosciuto di cui tutti ne parlano a ragione o a vanvera.

 

 

Lo Spread è una parola inglese che corrisponde al nostro termine italiano espansione. Perciò, considerato l’uso che se ne fa nell’economia di mercato, è un differenziale di rendimento che si calcola su un determinato prodotto: un interesse che si espande rispetto ad un altro, dunque variabile.

Relativamente allo spread italiano, di norma si cita sempre quello relativo al Bund. Abitualmente quello che confronta i rispettivi  titoli a 10 anni.

Lo si calcola in punti centesimali. Per cui se il suo coefficiente è ipoteticamente 100, significa che ha un rendimento superiore al prodotto di riferimento dell’1%.

Per comodità di ragionamento prenderò come riferimento appunto il Bund, Titolo sovrano della Germania.

 

Detto così in parole semplici sembra una cosa facile da capirsi. In effetti, è molto più complessa.

Infatti, lo spread, che viene continuamente menzionato dai media, non è il rendimento effettivo superiore del Titolo sovrano italiano su quello tedesco, ma ciò che risulta dalla compravendita praticata nel mercato mobiliare parallelo dei suddetti titoli.

Che significa? Che il titolo in oggetto può cambiare valore nominale non nel rendimento, bensì nel prezzo di transazione rispetto a quello dell’emissione.

È già questa frase può cominciare a diventare ostica ai più. Compresi molti … politici … titolati.

 

Per comprendere bene la questione userò un riferimento ipotetico come esempio, onde facilitare il discorso.

Poniamo che oggi sia la Germania che l’Italia emettano un titolo a 10 anni. Che entrambe le nazioni lo emettano con  lo stesso importo e tasso di interesse offerto al sottoscrittore.

Perciò pongo un valore nominale di sottoscrizione di 100 € per entrambi, con un rendimento annuale dell’1%. Entrambi i titoli andranno in scadenza simultaneamente tra 10 anni.

Che significa? Che il sottoscrittore in  entrambi i casi riscuoterà 1 € annuo di interesse su entrambi i titoli emessi, che pagherà allo stato emittente l’importo di 100 € per il titolo stesso, che tra 10 anni renderà il titolo allo stato emittente riscuotendo lo stesso importo a suo tempo pagato di 100 €.

Perciò tra emittente (stato) e contraente (investitore) si stipula un contratto fisso sia sulla durata che sul tasso. Dall’atto della sottoscrizione gli importi non cambieranno mai; dunque lo stato pagherà sempre 1 € di interesse all’anno e alla scadenza renderà al sottoscrittore anche i 100 € di capitale.

In questo caso tra il Btp italiano e il corrispondente Bund lo spread sarà esattamente 000 (zero).

 

Poniamo ad esempio che il sottoscrittore del Btp abbia dopo 5 anni assoluto bisogno di liquidità e che perciò debba recuperare la somma di 100 € finanziata a suo tempo allo stato. Ovviamente, essendoci un contratto, non può pretendere dallo stato emittente l’importo versato, dunque deve rivolgersi a un terzo soggetto a cui il titolo può interessare.

Posto teoricamente che il sottoscrittore abbia in portafoglio sia il Btp che il Bund, dovrà trovare un acquirente, o due, in grado di farsi carico per altri 5 anni dei suoi 2 contratti.

Il mercato mobiliare prevede anche la trattazione di questi titoli.

Perciò abbiamo: a) mercato ufficiale tra emittente e contraente; b) mercato parallelo tra contraente e investitori.

 

Al mercato parallelo, però, il nuovo acquirente gioca sul prezzo. È disposto a rilevare il Bund pagandolo 100 €, ma non il Btp italiano. Per quello offre solo 97,5 €: prendere o lasciare. Questa è la migliore offerta disponibile.

Il sottoscrittore bisognoso accetta e cede entrambi i titoli.

Che succede ora? Per i 2 stati emittenti proprio nulla, come se la transazione non esistesse neppure. Continueranno a pagare entrambi il tasso pattuito alla sottoscrizione, e alla scadenza renderanno il capitale al nuovo possessore del titolo.

Perciò lo spread ufficiale tra i 2 titoli resterà sempre 000 (zero) come alla sottoscrizione.

 

Per il nuovo investitore, che ha rilevato il Btp pagandolo solo 97,5 €, le cose invece cambiano. Infatti, per i restanti 5 anni di contratto continuerà a riscuotere lo stesso interesse (1 €), però alla scadenza ne incasserà 100 (come da contratto) e non i 97,5 pagati al sottoscrittore. Ciò significa che per i 5 anni ancora di contratto avrà un utile di capitale di altri 2,5 €.

L’interesse effettivamente ricevuto sarà perciò non più per lui dell’1% annuo, bensì dell’1,5% (0,5×5=2,5).

Dunque lo spread tra il Bund ed il Btp al mercato parallelo nel momento della transazione ha assunto un nuovo valore di 50 ptb, corrispondenti esattamente a quell’0,5% annuo che riscuoterà in più per averlo pagato meno (97,5 invece di 100).

Così dovrebbe essere. Ma così, in effetti, non è!

Il nuovo possessore del titolo, infatti, riscuote sempre lo stesso interesse di 1 €, però non su un capitale di 100, ma solo di 97,5. L’importo da lui pagato.

Dunque, l’interesse che riscuote, pur essendo lo stesso di quello del possessore precedente, non è più per lui dell’1%, ma dell1,26%.

Perciò il reddito reale sul suo Btp sarà dell’1,76% annuo (1,26%annuo +0,5%x5 anni al riscatto). Quasi il doppio del possessore precedente.

Supponiamo, infine, che la vendita venga fatta alle stesse modalità al nono anno.

Perciò in tal caso l’interesse che si riscuote, pur essendo lo stesso di quello nominale del possessore iniziale,  sarà in realtà del 3,59% arrotondato. (100×1%=100+1=101; 97,5×3,59%=97,5+3,50=101).

In questo caso lo spread complessivo rispetto al Bund, che mantiene inalterati gli stessi parametri, sale perciò a 259 ptb.

Lo stesso discorso invertito può essere fatto su un Btp con le stesse caratteristiche, che però ha tasso ipotetico iniziale del 10% annuo e che perciò sul mercato viene quotato con valore superiore al valore nominale iniziale di 100. In questo caso la somma superiore, corrisposta dal nuovo acquirente al primo sottoscrittore, fa scendere l’interesse percepito alla stessa percentuale.

 

Una domanda sorge spontanea a questo punto: perché allo spread viene dato allora tanta importanza se per lo stato non cambia proprio nulla?

Le risposte sono diverse e mi limiterò unicamente alle 2 principali dopo aver fatto una premessa importante e doverosa.

Germania e Italia hanno grosso modo un Debito sovrano analogo: Italia 2.000 mld circa, Germania 2.100 circa.

Perciò se entrambe in via teorica avessero emesso per coprire il loro fabbisogno di cassa 2.000 mld di titoli nello stesso giorno e con scadenza a 10 anni, il problema dello spread ufficiale e parallelo non servirebbe a nulla, se non alla scadenza per un possibile rinnovo.

Siccome però quasi settimanalmente vengono emessi titoli sul mercato – o per finanziare aggiuntive spese di cassa, oppure per rifinanziare i titoli in scadenza – è ovvio che i nuovi titoli siano influenzati dal corso del mercato parallelo, perciò dello spread che questo indica. Diversamente il nostro sottoscrittore iniziale non potrebbe vendere, né l’acquirente del suo titolo avrebbe ragione di acquistare, non traendone alcuna utilità.

Ne consegue che lo spread rilevato al mercato parallelo influenzi notevolmente il tasso d’interesse che verrà poi corrisposto nell’asta. Diversamente, con rendimenti molto diversi, l’asta andrebbe deserta.

Fatta questa importante premessa si può passare alle considerazioni.

 

a)      Lo spread del mercato parallelo è un termometro, del titolo già emesso, che poi si riflette su quello ufficiale nel momento che viene emesso un nuovo titolo. Dunque ha una buona corrispondenza, anche se non sempre coincidente.

In pratica più l’interesse è basso più il paese emittente dovrebbe essere solvibile. La solvibilità non è però data dal solo importo complessivo del Debito, ma da altre ragioni: Pil, reddito procapite, risparmio privato, beni posseduti, riserva aurea, capacità produttiva, rapporto efficienza entrate/investimenti/costi, …

Diversamente Germania e Italia, avendo grosso modo lo stesso Debito, dovrebbero avere spread paritario 000 (zero).

b)      Il costo dello spread si riversa però anche sui tassi bancari che vengono fatti pagare alle aziende sugli affidi per qualsiasi ragione concessi.

Qua il ragionamento è semplice: lo stato pone più garanzie del privato. Perciò la banca o ha interesse a riscuotere un  tasso superiore dal cliente, oppure investe in Titoli sovrani.

Vi è però un piccolo inghippo procedurale, perché la banca può finanziarsi su 2 canali diversi: il primo cercando liquidità dal privato, il secondo ricorrendo a prestiti dalla banca centrale, perciò dalla Bce, la quale garantisce liquidità alle banche al tasso dell’Euribor 3 mesi, attualmente oscillante intorno allo 0,75%.

Un divario enorme sia sul rendimento dei Titoli sovrani italiani, sia su quanto la banca fa poi pagare anche ai clienti migliori. Infatti, al costo minimo iniziale (lo 0,75% Bce) viene aggiunto uno spread che ben che vada è uguale (raramente) o superiore allo spread indicato dai Titoli sovrani nel mercato parallelo.

Ne consegue che tra aziende tedesche e italiane vi siano costi finanziari molto diversi, in grado di favorire/sfavorire la competitività del prodotto finito di pari qualità.

 

Compresa l’importanza dello spread, vale la pena soffermarsi su alcune considerazioni non meno importanti.

La prima consiste nel rilevare che lo spread è spesso ballerino, cioè in grado di variare di molti punti in poco tempo o anche nello stesso giorno. Ciò indica che in realtà non è solo correlato ai dati macroeconomici del paese, ma soggetto ad altre valutazioni “umorali” che con la realtà economica hanno poco a che fare.

Questa variabile “impazzita” si chiama speculazione. Infatti, tra Germania e Italia non vi è in modo assoluto la giustificazione dello spread attuale oltre i 300 ptb, con punte che in passato hanno raggiunto anche i 600 ptb.

Perciò, tolto l’investitore retail che incide pochissimo nel volume di scambio, significa che vi sono grandi finanziarie in grado di condizionare il mercato, quindi di far salire di molti punti – o viceversa – il valore dello spread, immettendo sul mercato – o richiedendo – una grande quantità di titoli, spesso e volentieri con una leva esorbitante e allo scoperto.

Lo spread viene perciò manovrato spesso a piacimento, fidando soprattutto nel fatto che a difenderlo non vi è più una vera Banca centrale in grado di farlo.

La Bce finora ha operato saltuariamente solo con manovre di monetarismo spurio, perciò indiretto: a) con operazioni di quantitative easing in favore delle banche a tasso ridotto; b) con la minaccia di usare l’ESM Ue.

Operazioni che, comunque, non possono essere perpetuate nel tempo, anche perché la Bce non è attualmente una vera Banca centrale.

 

Dall’inizio della crisi – o forse non è un caso? – lo spread è stato usato soprattutto come arma mediatica di massa di terrorismo psicologico, sia per far accettare al popolo provvedimenti draconiani, sia per condizionare i Governi democratici (liberamente eletti) in carica. Perciò per imporre in una certa nazione o dei governi tecnici (Grecia, Italia), oppure per condizionarne le scelte economiche e finanziarie (Portogallo, Spagna, Grecia, Italia).

 

Berlusconi ieri lo ha definito a suo modo, cioè un “imbroglio” atto ad abbattere un governo che osteggiava una certa linea finanziaria, soprattutto tedesco centrica.

Dal canto suo Monti ha risposto indirettamente che lo spread è l’indice dell’affidabilità di un paese e dello stato finanziario del bilancio di una nazione.

Ovviamente entrambe le dichiarazioni hanno del vero se estrapolate dal reale andamento dell’economia e dall’uso improprio che l’Alta finanza fa dello spread nel mercato mobiliare parallelo.

Entrambe le dichiarazioni – visti i contendenti tesi a giustificare un determinato interesse – debbono essere considerate delle populistiche e demagogiche dichiarazioni … pro domo mea.

 

Tralasciando il merito della diatriba tra l’ex Premier e l’attuale, vale sottolineare che nessuno finora, né in ambito Ue né in ambito mondiale, ha provveduto a correggere le storture del mercato, in grado di portare, con la manipolazione dello spread, determinati paesi sotto attacco alla rovina. Di cui la Grecia[1]docet.

Il rimedio – sempre osteggiato dalla Merkel (Germania): Mai gli Eurobonds finché sarò viva! – sta proprio nell’istituzione di quegli Eurobonds di cui Jacques Lucien Jean Delors fu l’ideatore e propositore col suo lungimirante piano nel lontano 1993; ripresi, in seguito in ambito Ecofin, come baluardo e antidoto alla crisi dei paesi deboli, da Giulio Tremonti[2] nel 2003, allora ministro delle Finanze.

L’Eurobond per ora è rimasto però solo come unità di misura del TUS Bce.

Per cui non si può far altro che aggiungere che sono passati 20 e 10 anni inutilmente. Dannosi per quelli che hanno subito rovine e floridi per chi sulle disgrazie altrui ha speculato assai.

Anche se la Merkel non accetta campagne elettorali populiste contro la Germania. Ma, tant’è, che tutti la contestano; molti anche nel teutonico Land.

Come a dire: il populismo è di casa … quasi ovunque, specie dove l’interesse nazionale vuol’essere sempre egemone su quello comunitario.

 

 

Sam Cardell

 

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