L’Occidente verso un collasso economico e strutturale.

L’Occidente verso un collasso economico e strutturale.

Benché il G7/G8 di Marsiglia avesse in programma la regolamentazione dei mercati e lo stato dell’economia mondiale, non pare che la strada maestra per la necessaria ristrutturazione, sia dei prodotti finanziari sia delle regole di mercato, sia stata imboccata.
Forse la crisi (ribasso) attuale dei mercati ha fatto passare in secondo piano la regolamentazione degli stessi, come se il risultato dell’uno non fosse dovuto alla causa dell’altro.
Le dimissioni di Jurgen Stark hanno poi preso il sopravvento su tutto, proprio perché da circa un mese – da quando la Bce decise di riprendere l’acquisto di Titoli sovrani dopo alcuni mesi di stasi – i contrasti nell’Istituto centrale di Francoforte erano diventati ormai insanabili.
Non conosco le motivazioni di Stark, né, ben inteso, il suo intendere l’economia/finanza nel grave momento attuale. Tuttavia se fossi stato al suo posto avrei votato contro il riacquisto dei Titoli sovrani, di qualsiasi paese questi fossero.
Sta di fatto che banchieri e politici non sanno quale strada maestra prendere per far uscire l’Ue, soprattutto, e l’economia occidentale, in generale, dallo stallo recessivo in cui l’hanno più o meno volontariamente infognata.
Perché una cosa deve essere perfettamente chiara: gli strateghi al vertice hanno fallito il loro compito sia nella comprensione, sia nella prevenzione, sia nella cura.

Pure negli States alcuni economisti cominciano a dire chiaramente che l’economia occidentale è sull’orlo del collasso totale e che la crisi finora vissuta sarà, procedendo di questo passo, ben peggiore della grande recessione del ’29.
Quella, infatti, fu dovuta in modo principale ad un’eccedenza alimentare produttiva con conseguente crollo dei prezzi, che rese controproducente economicamente la produzione agricola ed estrattiva.
Questa, invece, è dovuta sia ad una saturazione impropria del mercato consumistico – che ha diverse ragioni -, sia, soprattutto, ad una degenerazione di prodotti e di regole finanziarie che hanno innestato dei danni strutturali irreversibili, non correggendo i quali sarà sempre più difficoltoso procedere.
Obama pare non sapere che pesci pigliare e la sua “manovrina” (contentino) per stimolare l’economia è in pratica una goccia nell’oceano dei bisogni, ammesso che superi lo scoglio del Congresso.

Come già più volte ho affermato il salvare la Grecia sarebbe per l’Ue poca cosa e un minimo sforzo. Diventa un monte insuperabile se si considerano le difficoltà e gli ingenti debiti che attanagliano tutti gli altri paesi Ue mediterranei.
Di conseguenza salterà la stessa Ue e l’€, perché ormai è chiaro che senza una direzione centrale vi sarà solo l’assistenzialismo economico al sud (paesi mediterranei) pagato e finanziato dai paesi sani del nord. Situazione che non può reggere a lungo.
Farò un solo esempio per comprendere il problema sociale che si sta innestando pericolosamente: in Grecia si va in pensione a 53 anni, in Germania il metalmeccanico ci va a 67. Perciò se in Grecia ci si ostina a mantenere tale “privilegio”, bussando all’economia teutonica per reggersi in piedi, sarà molto difficile far capire al metalmeccanico tedesco l’utilità (?), lavorando molto più a lungo, del doversi sobbarcare continuamente il mantenimento (salvataggio) della Grecia colabrodo, già pagata con l’Esfs (fondo salva stati) molto più di quanto possa valere.

Far uscire la Grecia dall’€, restituendola alla Dracma è tecnicamente possibile, perciò concedendole con la svalutazione reale (secca di cambio) o strisciante (stampando progressivamente moneta) di salvarsi.
La svalutazione crea inflazione; la quale è la tassa più odiosa di questo mondo in quanto incide poco sul ricco e moltissimo sul povero. Ciò, tuttavia, e relativamente al discorso greco, ridurrebbe progressivamente i costi statali con il progressivo innalzamento dei prezzi che, essendo a carico del consumatore, ne ridurrebbero il tenore di vita. E pure l’investitore in titoli di stato è un consumatore finanziario.
In pratica si otterrebbe ciò che è avvenuto in Italia con l’avvento dell’€, che in molti casi ha svalutato le vecchie 1.000 £ al valore delle 2.000 (1 €), lasciando però inalterate le retribuzioni, perciò svalutandole, di fatto, con l’inflazione secca di cambio.
C’è però da considerare che la moneta è comune e che la sostituzione tecnicamente possa essere solo graduale e progressiva, ponendo di conseguenza delicati e fragili confini difficilmente controllabili e definibili.

Riacquistare titoli sovrani sul mercato è un semplice spreco di risorse finanziarie, perché serve solo a tamponare e non a risolvere, e diventa un controsenso economico e finanziario, specie se le regole di mercato rimangono inalterate: possibilità di vendita allo scoperto, trattazione simultanea su piazze diverse, possibilità ad ogni singolo stato di procedere con una propria politica monetaria.
Infatti, l’emettere liberamente titoli di stato per finanziarsi è un puro fatto di politica monetaria.
Ciò che tuttavia non è possibile ottenere con i singoli titoli sovrani, così come sono ora strutturati e commercializzati, sarebbe invece possibile o convertendoli tutti subito in Eurobonds, oppure con il procedere alla loro scadenza naturale con nuovi titoli comunitari sostitutivi, salvo un ferreo e centralizzato controllo vincolato a imprescindibili clausole di rigore economico/finanziario.
Pare che ai primi di agosto in seno alla Bce sia avvenuto uno strappo di impostazione, giacché i 2 rappresentanti tedeschi (più altri 2 del nord Europa) hanno votato contro il riacquisto, mentre a favore hanno votato tutti gli altri paesi. Ciò, tuttavia, esprime solo un’insufficiente democrazia fondata sul pro-nazione e non sul procapite, perciò imponendo a pochi (produttivi) i costi e ascrivendo i vantaggi (sperperi) a tutti gli altri. Fatto che è la negazione stessa del concetto di democrazia, di diritto e di dovere.

L’opporsi, stando così le regole di mercato, comunitarie e di voto, al riacquisto di titoli sovrani può essere considerato sotto due aspetti: il primo politico, il secondo di salvaguardia e di sopravvivenza.
Politico perché impone ai vari stati di essere autosufficienti e di provvedere da sé ai propri bisogni senza caricare su altri i propri costi improduttivi e di sperpero.
Di salvaguardia perché esime dal salasso finanziario senza fine gli stati virtuosi, trattenendo per sé risorse che in vista di un probabile collasso finale possano essere utili per reggere l’apocalisse finanziaria.
L’Ue, per essere valida, deve avere un unico governo, un’unica direzione e una comune strategia economico/finanziaria basata sull’effettiva rappresentanza demografica. Non può continuare ad avere una molteplicità di vedute e di strategie atte solo a produrre continui compromessi, sperando che le cose si risolvano da sé.
Augurarsi oggi che una forte ripresa produttiva negli stati in crisi possa rilanciare il Pil e con questo reggere i costi è solo utopistico, anche perché, stante l’ingente ammontare dei debiti, si dovrebbe dire dove le risorse atte al rilancio industriale/produttivo possano essere reperite.

Fino a poco tempo fa alcuni politici italiani andavano fieri e ringalluzziti del fatto che, avendoci portato in Europa, ci avevano posto al riparo di pericoli futuri, forse fidando nel fatto che i tedeschi ci avrebbero mantenuti tutti. E più volte ce lo hanno ricordato … superbi.
Chi avversò allora, fondandola su ragioni democratiche e economiche, questa indecente (politicamente) unione di comodo venne tacciato e denigrato come euroscettico; proprio come ai tempi dello sperpero dei governi di centrosinistra italiani a chi metteva in guardia per l’abnorme esplosione del debito pubblico gli si diceva se non vedeva che si stava tutti bene e perché si lamentasse.
I fatti attuali, però, indicano che ad un tempo di benessere relativo da cicala si dovrà porre rimedio con un lungo periodo di austerità, che metterà in serio pericolo anche l’esistenza dei nostri figli.
Se vi sarà il collasso strutturale di stati ed aziende, sarà una catastrofe sociale inimmaginabile che porterà con sé dei violenti moti popolari.
I popoli arabi si stanno ribellando a 50 anni di monocrazia; gli occidentali si ribelleranno all’allegra gestione delle finanze pubbliche e alle speculazioni finanziarie.
Sono tra gli ottimisti e penso che la situazione sia ancora recuperabile, pur con molti sacrifici. E più si procrastinerà l’intervento deciso, più vi saranno pericoli, difficoltà e costi aggiuntivi.
La violenta oscillazione dei differenziali pone in rilievo da una parte che più questi si impennano, più i costi diventano insostenibili; mentre dall’altra i mercati mobiliari crollano, vanificando risparmio, valore aziendale e bruciando gli investimenti di tutti. Il differenziale greco ha superato i 1700 pb; nessuna economia può sostenere interessi prossimi al 20%.
Siamo in un circolo vizioso dovuto all’incapacità politica di fare scelte opportune e precise, anche se impopolari: scelte non più procrastinabili.

In Cina l’inflazione cresce e oscilla sul 6/7%, mentre il Pil scende sotto le 2 cifre. Laggiù si è proceduto col cavalcare il liberismo occidentale e dopo l’esplosione produttiva ci si incammina verso la stessa crisi occidentale. Se si storna il Pil dal dato dell’inflazione, si vede che la produzione cinese è quasi normale.
L’incremento del Pil attuale non è tanto espresso dall’esportazione, che benché ancora sostenuta sta scemando per le difficoltà del mondo occidentale, naturale destinatario della produzione industriale cinese, bensì dall’esplosione del consumismo interno, che, in quanto tale, è destinato a bruciare ricchezza, risparmio e investimenti.
L’esposizione cinese sui titoli sovrani occidentali, specie U.S.A., è, in effetti, un’arma a doppio taglio; perché se da un lato, quando le cose vanno bene, incamera profitti (reinvestibili) da interessi, dall’altra, se va male, rende un capitale o nullo o svalutato.
In pratica è la stessa cosa di quanto avviene in società finanziarie tedesche e francesi, specie in quelle che hanno in portafoglio un ingente quantitativo di titoli ellenici.
Le principali banche italiane, invece, sono colme di titoli nazionali e perciò vincolate all’andamento del differenziale nostrano: sale il differenziale e crolla la quotazione. O viceversa. Si basano e hanno scommesso solo sulla tenuta del mercato interno.

Giorgio Napolitano invita tutti all’unità nazionale in questo momento di grave crisi; ma le forze politiche avverse hanno ben altro a cui pensare, intente al gioco dello scaricabarile populista e dell’addossarsi reciproche responsabilità, invece dell’assumersele.
Tutte invocano le riforme strutturali come un toccasana, anche se quasi nessuno ha il coraggio (la volontà) di indicarle e di formalizzarle.
La vera riforma strutturale, da cui non si può oggi prescindere, è quella della ristrutturazione del mercato, quindi delle regole operative che lo regolano. Non iniziare da ciò, sia a livello nazionale che occidentale, significa correre volontariamente verso il baratro, quel baratro che con voce ormai sempre più frequente viene indicato come collasso strutturale economico/finanziario.
Un pensiero va pure rivolto a Confindustria, la cui presidente attuale non si capisce bene se voglia fare l’industriale o l’assistita. Perché, seguendo i suoi sermoni da sibilla cumana, non afferro esattamente (eufemismo) dove stia l’imprenditoria privata, dove stia il rischio e dove stia la capacità di saper creare valore aggiunto alla nazione.

Un ultimo pensiero finanziario va alla ricorrenza dell’11 settembre, perciò a Bin Laden, il cui obbiettivo era quello di ridurre l’egemonia economica e finanziaria americana. Obbiettivo che è stato ampiamente raggiunto.
Gli U.S.A., infatti, dopo la prima reazione istintiva di procedere con nuove guerre per estirpare il terrorismo internazionale, hanno commesso molti errori di valutazione e di pianificazione, pur possedendo un’egemonia tecnologica e bellica unica.
Come è loro spesso abituale hanno proceduto troppo alla carlona.
Si sono ritrovati così a sprecare ingenti risorse finanziarie, se si pensa che le guerre intraprese abbiano dilatato il loro Debito sovrano in modo abnorme, in pratica quasi raddoppiandolo con le sole spese militari necessarie all’impegno d’intervento. Ciononostante vivono oggi sulla difensiva e sono ben lungi dall’aver risolto il problema.
Pure la Nato ha mosso guerra a Gheddafi e non si sa per quanto, dopo Afganistan, Iraq e Somalia, possa rimanere laggiù invischiata. Perché è chiaro che se la Nato oggi cessasse il suo intervento militare i ribelli sarebbero facilmente annientati.
Il mondo occidentale si sta suicidando con le proprie mani, cercando un’onorevole via d’uscita (fuga) che si chiama solo ritirata e sconfitta. Gli U.S.A. l’hanno già vissuta in Vietnam, ma da quell’avventura non hanno imparato molto.
E su questo ripetitivo interventismo neocolonialista ammantato da principi libertari e democratici (ipotetici) stanno costruendo la loro tomba: quella del diritto d’intervento in faccende altrui e quella della rovina delle proprie economie.

Sam Cardell

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